Trieste, 3-5-2009. Alla fine della gara, nell’attesa troppo lunga che il traffico fosse riaperto per consentirci di tornare ai nostri alberghi e verso casa, scambiavamo le prime impressioni con l’eccellente speaker Michele Marescalchi (uno che trova le parole giuste per tutti, senza bisogno di circonlocuzioni complicate sulla base del “restate con noi, non andate via”): 548 gli arrivati della maratona, duecentoventi in meno della concorrente Barchi-Fano (dove, tanto per fare un nome, era andato Govi, in quanto ospite d’onore, con molti altri, in quanto si mangiava quasi a sbafo); ma a questa cifra i triestini possono aggiungere i 1785 classificati della maratonina (che peraltro non sono il record), e gli oltre undicimila partecipanti alla “Bavisela” non competitiva di 7 km, questi sì in numero più elevato che mai.La prima volta che avevo corso qui, nel 2001, avevo giudicato l’organizzazione tra le migliori d’Italia; tornandoci nel 2007, erano emerse varie pecche nella gestione di noi gente comune, che mi avevano fatto scrivere alla fine: “Ma in compenso la gara e’ stata ripresa in diretta Rai, con Bragagna Monetti e Pizzolato, e perfino la ‘mula’ Gabriella Fortuna la cui pesante cadenza friulana ti ispira tanta simpatia (ma ovviamente, quando arriviamo noi, è già andata a vedersi la partita dell’Udinese). Siamo alle solite: in Italia, quando si organizza una maratona ‘d’elite’ (si fa per dire), ci si preoccupa prima di assicurarsi la presenza di Bragagna e Monetti con elicottero-rompiballe incorporato: se ne avanza, si mette qualche arancia o qualche doccia in più”.Una ragione per cui ero tornato sta nel cambio di percorso (già collaudato nel 2008): giro unico point-to-point, con commossa rivisitazione dei luoghi della Grande Guerra lungo l’Isonzo da Gradisca a Monfalcone, e seconda parte nei luoghi che invece rievocano le sofferenze dell’ultima guerra, col km 21 al Castello di Duino, poi Sistiana e lungo il confine con l’attuale Slovenia, intriso per sempre dal sangue dei nostri martiri (tra cui, ricordo, il papà di Lucio Gigliotti ucciso dai titini ad Aurisina). Percorso ricco di storia e altrettanto denso (se si può dire) in geografia e in poesia: la linda e ordinata Gradisca, il Monte San Michele e San Martino del Carso in partenza, dove ripensi a quelle poesie disperate di Ungaretti, e all’ “inutile strage” di papa Benedetto XV; il sacrario di Redipuglia, e Ronchi da dove i legionari di D’Annunzio partirono a recuperare la “vittoria mutilata”. Poi lo sbocco sul mare a Monfalcone, con la voce sensuale di Elisa Toffoli a farci strada (“siamo nella stessa lacrima…”); e la risalita verso le alture che ci separano da quelli di là, che si sono mangiati quasi tutta la Venezia Giulia. Poi, lontano dall’alto, appare il castello di Miramare, inscindibile dalla poesia di Carducci, e là in fondo il traguardo, quest’anno veramente finale e non solo una metà dopo di cui ci aspettava una poco godibile escursione per tangenziali e rugginosi silos mercantili.Insomma, valeva la pena di riprovare, nella speranza che le cose buone fossero rimaste e le meno buone fossero state migliorate: e così mi è parso nel 2009. Ad esempio, perfetta l’organizzazione degli autobus verso le partenze della 42 e della 21; più confortevole la zona partenza di Gradisca, in un ampio parco e con abbondanza di toilettes; larghe le strade d’avvio a evitare gli ingorghi che si erano verificati a Duino; ben forniti i ristori (mentre nel 2007 alimenti solidi erano comparsi solo dal km 25), abbastanza caloroso (in proporzione ai luoghi) il pubblico, chiusura al traffico assoluta, misurazione del percorso precisa, nei limiti di quei 200 metri in più che vari gps indicano.Gente simpatica in partenza (che gli antipatici siano tutti a Barchi?): il marò Boldrin che non ha più le vigne di Clintòn, Andrea Furlanetto che auspica una riconciliazione generale, Antonio Margiotta teso verso la prestazione dell’anno, qualche mula de Parenzo che è sempre un bel vedere. Faccio tutti i primi 25 km col sior Vitòrio Bosco di Manzano, su un’andatura che a principio promette un 3.40 finale, poi passa a 3.50, poi – quando ci vediamo sorpassare dai pacer delle 4 ore – diventa un “si salvi chi può”. Ma intanto ripassiamo la storia in base ai cartelli stradali: qui è nato Bearzot, da là viene Capello, più in su stava Blason, mentre Domini è del mio paese, e il famoso duello Burgnich-Pascutti era una lotta tra vicini di casa. E ripassiamo anche l’elenco delle corse che non ci sono più: la 100 km Trieste-Udine, la Trevisando di Cappella Maggiore, la Maratona del Carso di Aurisina… Mentre il profumo delle robinie in fiore ci avvolge, e làggiù appaiono tra i vapori i luoghi cantati da Carducci: “Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi - stanno guardando le città turrite - Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo - gemme del mare… - e tona il cielo a Nabresina lungo - la ferrugigna costa, e di baleni - Trieste in fondo coronata il capo - leva tra' nembi”.L’arrivo, in uno scenario tra i più belli d’Italia, c’infligge la tortura podistica di un giro a ferro di cavallo per la piazza, utile però al sottoscritto per qualche sorpasso a danno di chi si credeva già arrivato (ripenso alla mia maestra di queste parti, anni Cinquanta, e al suo canto “non passa lo straniero”, nel superare tal Trajce Pankowski, più giovane di dieci anni, e però…). Ristoro finale discreto, comoda e puntuale la riconsegna bagagli, a 300 metri è il pasta-party (maccheroni e acqua, basta così; il di più viene dal colloquio col filosofo di Pordenone Andrea Busato, oggi al suo rientro in grande stile); le docce sono decentrate e stavolta ci rinuncio, vista la loro povertà di due anni fa e la disponibilità della doccia in albergo. Solo che per arrivare in albergo (prelevando l’auto dal parcheggio a prezzo convenzionato) bisogna aspettare la riapertura del viale Miramare, che viene molto ritardata rispetto al tempo massimo della gara: sarebbe scaduto alle 14,45, ma qualcuno arriva ancora alla spicciolata e, per eccesso di scrupolo, le strade principali sono chiuse ancora alle 16, e solo grazie a un itinerario alternativo suggerito da un vigile (“non si potrebbe, ma provi lo stesso”) riusciamo a evadere.Ma sì, come podisti questo lo possiamo perdonare.
articolo pubblicato su http://www.trackandfieldchannel.net/
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